“Gli dei della città, secondo alcuni, abitano nella profondità, nel lago nero
che nutre le vene sotterranee. Secondo altri gli dei abitano nei secchi che risalgono
appesi alla fune quando appaiono fuori della vera
dei pozzi, nelle carrucole che girano...'
Italo Calvino, Le Città Invisibili
Parte di me sapeva che, sul palco, col megafono in mano, la sfida più grande sarebbe stata resistere al folle pensiero che ascoltarmi fosse, da parte loro, un atto dovuto. La stessa parte di me sapeva anche che, in fondo, era un atto dovuto. Mi avevano scelto. I cittadini mi avevano scelto. La città mi aveva scelto.
Io avrei salvato Isaura.
Presi il megafono in mano. In passato quelle mani avevano mosso mattoni, spinto persone, retto il peso di armi da fuoco. Quella sensazione, però, sapevo che non l'avrei mai dimenticata. Quello strumento che, quando fischiò accendendolo, sarebbe diventato la voce dell'autorità, trasformando le parole di uno nelle parole di tutti.
«Io sono un cittadino» esordii, la mia voce gracchiante amplificata, distorta, resa grottesca dallo strumento tra le mie mani, «come ciascuno di voi. In quanto tale, spero di esprimere l'opinione della maggior parte di noi – se non addirittura di tutti noi – dicendo che questo abominio non ha posto tra le strade di Isaura Sopra.»
Voltai leggermente il torso, estendendo un braccio verso lo Sviluppo alle mie spalle. Una minoranza diceva che, essendo esso già stato approvato e costruito, la nostra protesta non avesse alcun significato, come se una malattia dovesse essere accettata solo perché essa ha già compromesso un organismo. Era una delle posizioni contro cui mi ero più fortemente espresso nei mesi precedenti; tuttavia, in quel momento, capii per lo meno le radici di tale disfattismo.
La torre di pietra, cemento e flogisto sarebbe potuta essere una città in sé. Poggiata su un terrapieno che aveva divorato uno dei parchi più antichi del quartiere, incombeva sopra i tetti spioventi di Isaura Sopra, restringendosi un livello dopo l'altro fino a diventare una guglia al quarantacinquesimo piano. Intrichi di piante ne adornavano i terrapieni, e scrosci d'acqua cadevano da canali incisi nelle pareti, diventando prima rivoli, poi piscine e laghi artificiali.
In contrasto al fuligginoso mattone, umido di muschio, che era la norma tra le case di Isaura Sopra; o comparato alle botteghe scolpite nel fungo vivo di Isaura Sotto; lo Sviluppo era di una bellezza da lasciare senza fiato. Una bellezza pulita, liscia, senza rughe e senza pancetta. La bellezza imbalsamata del futuro fatto cadavere e vestito in abiti sontuosi.
Vidi, sui più vicini delle migliaia di volti di fronte a me, che eravamo sulla stessa pagina. Per noi, che respiravamo le spore di quei funghi e sedevamo sopra quel muschio ogni giorno della nostra vita, la sciocca promessa dello Sviluppo era un guscio vuoto. Potevo continuare.
«La sua costruzione ha giocato contro gli stessi signori che l'hanno pianificato, perché mostra fino in fondo la loro incapacità di comprendere cosa voglia dire essere cittadini per coloro che di giorno dormono tra i tetti di Isaura Sopra, e di notte vivono e commerciano nelle gallerie di Isaura Sotto.» Puntai un indice verso la folla. «La nostra è un'arte e una scienza; formata e certo, trasformata di generazione in generazione. Ma sempre e comunque da noi. È nel corso del nostro vivere con gli altri e tra gli altri, sopra e sotto la crosta delle strade di Isaura, che il cambiamento decide se avvenire o no.»
Una voce anonima, una tra tante – eppure, ricordai a me stesso, comunque un cittadino né più né meno di me – urlò.
«È troppo tardi!»
Me lo aspettavo. Lo sapevo dall'inizio che, nei loro piani,costruire lo Sviluppo sarebbe stato l'unico passo necessario a renderlo inevitabile. Una volta che esso fosse, sarebbe diventato una realtà urbana innegabile.
«Se perdessimo Isaura» gridai nel mio strumento di metallo, «sarebbe forse troppo tardi? Non diremmo che la città siamo noi, come io ho sempre creduto, e come sento proclamare con fierezza, giorno dopo giorno, ogni volta che con voi intraprendo l'esodo dalle luci di Isaura Sopra, al caldo abbraccio sotterraneo di Isaura Sotto?»
«Nessuno mai negherebbe questa verità. Ciò che facciamo, lo facciamo solo per il vostro progresso.»
Mille facce, e la mia con loro, si voltarono a cercare la fonte di quella voce, chiara e perentoria anche senza megafono; in realtà, sapevamo già tutti dove trovarla. Alle porte dello Sviluppo, in piedi sul terrapieno, Arcangelo si presentava a noi in tutto il suo gusto e personalità – completo talmente perfetto che sembrava gli fosse cresciuto addosso come una seconda pelle; taglio alla moda del quartiere straniero da cui veniva; anche dalla nostra posizione inferiore potevamo immaginare il luccichio della luce sulle sue scarpe a specchio. Non faceva più alcuno sforzo per nascondere le ali, piumate e multicolori, che veleggiavano come tendaggi preziosi dietro di lui. Eravamo al di là della mistificazione.
Arcangelo continuò. «La biologia, la medicina, la storia ci costringono a volte a fare un salto nel buio. Ma non dobbiamo essere soli in questo – non dovete per forza essere soli. Attraverso questo nostro dono, e i molti altri che lo seguiranno, miglioreremo il vostro standard di vita, rendendolo più salubre, sicuro, e conduttivo a una vita piena e soddisfacente.»
Mi sorprese che il silenzio che seguì le parole di Arcangelo non facesse collassare lo Sviluppo, sprofondando l'intero quartiere insieme a esso. Intorno a me e a noi, circondando la piazza, i tetti di Isaura Sopra sembravano biasimarci per il nostro immobilismo, per il nostro accettare supini che il tanto di altri devastasse poco che ci apparteneva.
Mi bastò, però, chiudere gli occhi per un istante e guardare in faccia il cittadino che meglio conoscevo, per sapere cosa dire.
«Qualcuno mi spieghi perché Leonina, quartiere delle Bianche Vele, dovrebbe avere il potere di decidere come noi di Isaura, quartiere del Sopra e del Sotto, dovremmo vivere. Con quale arroganza» e stavo già praticamente urlando, «si permettono, loro che non sono noi né desiderano veramente diventarlo, di scrivere la nostra storia al nostro posto?»
Un inizio di applauso fu decapitato da una risata – di scherno, tuttavia comunque cristallina e ammaliante – alle mie spalle. Le ali di Arcangelo vibrarono, come mosse da un nuovo, più forte vento.
«Non ci aspettavamo che il nostro regalo per voi, dei quartieri inferiori, fosse accettato senza alcuna riserva» disse, «tuttavia, siamo a una impasse.» Alzò una mano verso la torre alle sue spalle. «Lo Sviluppo già è.»
Sorrisi di una tale ingenuità. Quell'ultima prova di forza era la loro capitolazione, di Arcangelo e di tutti coloro che si nascondevano dietro il suo nome. Mi chiesi se, nella sua mente, sapesse di avere appena ammesso la sconfitta della loro arrogante impresa.
«Finché non vi saremo dentro noi, lo Sviluppo non sarà mai Isaura, né sopra né Sotto» dissi, dando le spalle a quella nullità alata e rivolgendomi invece a coloro che, per mia e loro scelta, erano come me. «Se ciò accadrà sarà deciso da noi e solo da noi-»
Il quartiere stesso, la città stessa sembravano aspettare, in muto silenzio, che io pronunciassi quella parola, finale.
«- con una votazione.»
Arcangelo urlò. Le sue ali si contorsero e vibrarono come diapason rotti, prima di portare la sua figura accartocciata, umiliata, lontano da noi – forse verso le vele di Leonina, forse dentro l'inferno che aveva partorito lo Sviluppo, quella torre mitologica, violenza alla nostra realtà quotidiana. Mentre si allontanava, le sue ali non sembravano più così multicolori.
Scesi dal palco, abbandonando il megafono a terra. Non mi serviva più, perché stavo tornando tra di loro. Tra la mia gente. Mi avrebbero capito, anche se avessi solo sussurrato.
Alzai gli occhi al cielo – ormai era sera. In file, a gruppetti, da soli, ci avviammo verso le antiche scale che ci avrebbero condotti, come sempre, a Isaura Sotto. Dietro di noi, abbandonato, lo Sviluppo tremò nella luce morente del tramonto e svanì nel nulla.