Tuesday, May 1, 2018

Cristiano Montanari - 'La Carne'

This short story won second place at FiPiLi Horror Festival's 'La Paura fa 90 Righe' writing competition. I've been told by one of the judges it's 'terrifying' - now you get to decide for yourself. Sorry, Italian only for the moment. 


La Carne

E' quasi ora di cena quando ritorno a casa dalla veglia funebre. Chiudo la porta dietro le mie spalle, getto la giacca sul divano. E' parte di un completo nero, che ho comprato apposta per l'occasione. Oggi è stata una delle prime volte nella mia vita in cui mi sono dovuto preoccupare del colore di ciò che indossavo. Prima ci pensava mia madre, poi ci pensava lei. Ora sarà, come qualunque altra cosa, un mio problema e basta.
Come la cena.
Faccio lavori in casa, li ho sempre fatti. Sono una di quelle persone che, se non sono sempre impegnate in qualche mansione, meglio se fondamentalmente superflua, sentono il senso di colpa rodere inizialmente a livello dello stomaco, poi sempre più giù fino all'intestino. Solo in due cose non sono mai stato 'l'uomo perfetto', qualunque boiata di giogo esistenziale queste parole stiano a significare.
Ho sempre avuto bisogno di qualcuno che scegliesse gli abbinamenti di abiti per me. Sono completamente incapace di distinguere quelle sottili variazioni tra nero e nero che lei invece era così brava a cogliere, e mi vesto sempre o troppo pesante, o troppo leggero per la stagione. Così lei sceglieva tutto al mio posto, lasciandomelo la mattina sul letto nella forma di un corpo umano, come se una persona si fosse sdraiata sul materasso e poi questo l'avesse ingoiata. Rimaneva solo l'esoscheletro, quegli assemblaggi di tessuto che – ora lo capisco appieno – potrebbero essere me tra qualche anno o qualche decennio o anche forse domani, quando mi unirò al suo fianco.
Sono anche completamente incapace di cucinare. Lo so, un'affermazione che quasi chiunque farebbe. La falsa modestia è, a mio parere, uno dei cancri della nostra società contemporanea. Io, invece, ammetto sia le mie qualità che i miei limiti con candore. So fare tante cose molto meglio di molti altri, ma non so cucinare.
Se so fare due uova al tegamino? Certo. Se so arrostire un pesce con patate, o buttare una manciata di pasta dentro ad una pentola? Quello non è cucinare. Quello è creare una risposta passabilmente adeguata a necessità fisiologiche. Il suo era cucinare, con spezie ed aromi di cui ora mi pento di non avere ascoltato il nome. Come, in realtà, mi pento di una miriade di altre cose, incluse alcune a cui fatico a dare un nome. Verranno, col tempo.
Ora è il momento di soddisfare necessità fisiologiche. Senza accendere neanche una luce raggiungo, tra le ombre della giornata nuvolosa, la cucina. Il silenzio è assoluto – ho rotto la televisione un paio di giorni fa, tirando contro lo schermo un portafotografie – ed ora quell'ambiente, in cui mi sono sempre sentito più ospite che abitante, mi appare ancora più estraneo. Entrarvi è come intrufolarsi dentro un utero diverso da quello in cui si è nati.
La luce del frigorifero illumina i miei lineamenti stanchi. Non immaginavo che la morte di qualcuno potesse essere una tale girandola di firme, incontri e pagamenti. Sospetto che sia, in fondo, un altro modo per rendere gestibile l'abisso. Ridurlo ad un catering per famiglia e conoscenti, o un bonifico intestato a Fenice s.p.a., Società Onoranze Funebri.
C'è poca roba fresca in frigo. Fiocchi di latte, una testa di lattuga ancora da pulire, un piattino con qualche fetta di emmental coperta da pellicola trasparente. Lei adorava fare la spesa, diceva che la luce dei supermercati, la quasi totale mancanza di ombre, la tranquillizzava. Si fermava ogni giorno dopo il lavoro a fare pochi acquisti, in base a ciò che progettava di cucinare, così i cibi freschi venivano praticamente sempre usati subito.
Poi lo vedo sul lavandino, a scongelare, e me lo ricordo. Giusto. Avevo tirato fuori un pezzo di carne.
Il freezer, quel piccolo portale verso un altro mondo, posto subito sopra il frigorifero, mi era quasi completamente sconosciuto. Il suo parente meno glaciale, a volte, lo esploravo in cerca di uno snack, in genere a notte fonda. Il freezer, mai.
Aprirlo, dopo che lei se ne è andata, è stato scoprire un mondo nuovo, remoto. La sua architettura interna era, come quasi tutto ciò che lei faceva, un trionfo di ordine e funzionalità. Tutto ben chiuso in buste o scatole di plastica trasparenti e col contenuto marcato a pennarello nero, un pianeta freddo di pezzi di leviatano congelati – avete mai visto quanto è grande un halibut, e da dove viene? - e condimenti che, dietro la brina, promettono paesaggi bucolici.
Sul fondo avevo trovato alcune buste, contrassegnate con data ma senza indicazione di cosa contenessero. Rimuovendo temporaneamente il resto dei prodotti surgelati, le avevo riportate alla luce.
Comunissimi pezzi di carne. Probabilmente ciascuno di quei tagli aveva un proprio nome, ma non li conoscevo. Estratti e disposti sul tavolo, mi ricordavano molti altri oggetti, raramente collegati in alcun modo alla carne. Pietre, ritrovate sul letto di un fiume. Forme di legno, con cui un bambino avrebbe giocato. Il misterioso abitante degli abiti che trovavo arrangiati sul letto ogni mattina, smontato e ben nascosto tra i ghiacci.
Accettando che, nonostante tutto, dovevo comunque mangiare, avevo provato a scongelare quella che mi sembrava essere una bistecca. L' ho fatta semplicemente in padella con un po' di burro, sale e pepe. L'ho mangiata stancamente, senza entusiasmo. Era filacciosa e quasi insapore, forse era rimasta in fondo al freezer troppo a lungo.
Ora, esattamente come qualche giorno fa, cucino un po' di quella carne che lei mi ha lasciato in eredità. Rimuovo l'acqua in eccesso, verso un filo d'olio in una padella e, dopo qualche secondo vi adagio sopra il pezzo, un basso cilindro di tessuto rosso e fibroso – credo sia un 'medaglione', o qualcosa del genere. Mentre la materia grassa sfrigola e la fiammella del fornello si riflette sull'acciaio lucido, ripenso alle tante strane eredità che lei mi ha lasciato. I parenti che neanche sapevo avesse. La difficoltà nel riconoscere nero da nero. La cesta, nascosta, piena di anelli, catenine ed orecchini che non l'avevo mai vista indossare. Quella carne nel freezer, che sembrava quasi avesse lasciato apposta per me.
Senza contorno, butto il medaglione su un piatto e stappo una birra formato famiglia. Lì, nella penombra della cucina, seziono in piccoli pezzi tutti uguali la carne, la suddivido in base al parametro logico della riduzione a forma semplice. In un qualche modo, quel piccolo gesto mi fa sentire in controllo della mia esistenza. Frammento dopo frammento, il medaglione sparisce tra i miei denti, poi giù per i recessi di me, meandri che non hanno mai visto la luce.
Il sapore mi ricorda qualcosa, ha un che di familiare a cui non riesco a dare un nome. Come le colpe, anche i nomi verranno. Prima o poi.

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